rec. Gianfalco
Pubblicato in: Alleanza nazionale del libro,rassegna di cultura, fasc. 7-8, pp. 325-326
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Data: luglio-agosto 1934
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Papini ha avuto il suo biografo: un biografo proprio come poteva sperarlo, e com'egli solo poteva averlo, egli che ha sollevato odii vatiniani ed amori fortissimi nella sua vita e ad essi un pò è vissuto e ha tratto le ragioni dell'arte sua Papini, vicino di Dante, non poteva, avere una di queste biografie obiettive, come s'usano purtroppo ancor oggi, grigie e stiticuzze lambiccate attraverso i cannelli di prova di una estetica e di una morale prefissata preconcetta scritte da gente e senza infamia e senza lodo. Alberto Viviani ha seminato con abbondanza di cuore nel suo libro, anche nel titolo, perchè Gianfalco col solo suo nome fa germinare di nuovo, come per incanto, il tumulto degli anni giovanili, le sciabolate donchisciottesche, dietro cui trotterellavano -allora- non pochi Sanci Pancia timorosi e bofonchianti, che ora si son fatti governatori di isole; Gianfalco è il Papini, amato e odiato, ma armato e battagliero, grifagno e aggressivo, che difende la roccaforte del suo cuore e della sua intelligenza, dove, a dispetto marcio dei lividi e degli invidiosi, dei toccati e dei maligni, è un mondo positivo di idee e di sentimenti, un balenio di intuizioni e di profezie, un calore di fede, che riscalda e che crea in lui e dintorno a lui.
Il libro del Viviani non è una biografia, ma è una storia spirituale del Papini, che lo accompagna dal primo sorgere della sua personalità battagliera e dalla formazione del suo intelletto e della sua vasta cultura sino al raggiungimento di successive situazioni, da cui egli ha avuto ed espresso nuove visioni e su cui, a torto, si può pensare ch'egli oggi resti, statico ed estatico contro la sua stessa indole, se non in quello che rappresenta il suo sicuro ritorno a quel mondo di luce che è la fede.
Il calore e l'amore saranno imputati al Viviani come colpa, è da prevedere, perché non son del tutto spariti i critici e i filantropi che... c'intendiamo. Ma sono invece il suo merito: circolano per tutte le pagine e le infiammano e le fanno aderire al soggetto e ne rivestono ad un tempo lo spirito di Gianfalco e quello del lettore, che, a meno sia rivestito d'amianto, incorruttibile e perfido, ardono d'un fuoco solo e comune.
Dunque è onor suo d'aver scritto così, come torna ad onore del Papini aver lottato inesorabilmente, pensato e scritto per una maggior sincerità dello spirito, per una miglior integrità dell'anima e della cultura italiana in tempi men leggiadri e più feroci, quando, giovanissimi, trovammo in lui l'uomo e lo scrittore che volevamo, che incarnava l'ideale dei nostri tempi di vigilia e di attesa, di ribellione e di lotta: libero e franco, fascista prima della parola, lasciatemelo dire, e vada a que' tali che, venuti in coda, riuscirono a portare il fanale in testa e ora si sforzano a dirne male, a svalutarne l'opera, a irridere chi diede loro a suo tempo di così bello e sante lavate di capo.
Il Viviani, scrivendo, ha papinianamente sentito e vissuto i tempi, gli spiriti, le idee: in questo mondo in cui l'eroismo d'Oberdan era inviso, ignorato il pensiero d'Oriani, demolita l'opera del Crispi e senza eco la rampogna del Carducci, indubbiamente il Papini sorse come uno dei precursori di una Italia nuova che bisognava preparare nello spirito: e Leonardo, La Voce, Lacerba furono i tre momenti, artistico, intellettuale, politico gli una battaglia
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spirituale che creò una minoranza audace, battagliera, spregiudicata, la quale polarizzò intorno a sè quanto v'era nel decennio 1904-1914 in Italia di spiritualmente forte e libero.
Il Viviani trova, durante il racconto, felicissimi contatti e riferimenti politici con lo stesso Fascismo che per la personalità possente di Mussolini doveva incamminarsi per vie più lontane ma nella direzione però delle migliori premesse di questo maestro d'arte e di vita.
La sua stessa cosiddetta conversione, che il Viviani spiega in modo evidentissimo e che alcuni credono qualcosa come la discesa dell'Innominato dal suo castello, è incompresa oggi solo da coloro che, superati dai tempi, nei sentimenti, e nelle idee, non hanno conosciuto questa benefica catarsi che é la storia di tutta la nostra generazione migliore.
Lo scrittore è stato attaccato con maggior prudenza, né il Viviani —fa benissimo— si sente di difenderlo. Non c'è bisogno. E' uno dei pochi veri scrittori, non solo viventi, ma di questo primo terzo di secolo (e si contan sulle dita di una mano, restando qualche posto libero). A lui dobbiamo una prosa viva, saporosa, che esprime delle idee, senza pesare come il macigno del Natale manzoniano che precipita a valle e sta; a lui si deve con la Storia di Cristo, con S. Agostino e Dante vivo il libro italiano, cioè non imitato da pappagalli ad uso biografie da vari Ludwig e Zweig, puzzanti d'anima straniera lontano dieci miglia, ma ben costrutto, sintetico, forte, polemico, come vuole l'anima nostra battagliera, pieno di sangue e di nervi; che, se se ne scrivesse qualcuno di più in Italia, non parleremmo di crisi e vedremmo un pò più gli occhi degli altri rivolti ed ammirar fra noi, di quel che non restiamo noi scioccamente imbambolati ad ammirar l'altrui.
Papini, combattuto, esecrato, lapidato è ancora Gianfalco come Viviani lo presenta nel suo bellissimo e italianissimo libro, forte oggi di una forza anche maggiore per il suo inattaccabile cattolicesimo che è universalità di intelletto e di spirito. Il falco di Bulciano può ben aspettare, che, qualunque sia il suo destino sarà avvento di giustizia e di vittoria per lui.
A. Viviani - Gianfalco. Barbera, Firenze, 1934, in-16, pp. 464, L. 15.
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